Uno studente è stato sospeso per 5 giorni per aver diffuso su WhatsApp il fotomontaggio che ritrae il volto della preside sul busto di un ufficiale nazista con il simbolo delle SS sul braccio sinistro.
L’episodio risale a febbraio scorso, lo studente non è stato l’artefice del fotomontaggio ma ha solo condiviso l’immagine realizzata da ignoti e affissa sui bagni della scuola nella chat con altri 3 compagni, a suo padre e ad un ex alunno della stessa scuola.
La vicenda è arrivata davanti al Tar di Lecce. Il legale ha sostenuto che la finalità del gesto non era certo quella di denigrare la dirigente o fare commenti a sfondo nazista, ma come la condivisione di una foto con il cellulare, principale mezzo di comunicazione fra giovani e giovanissimi, era semplicemente un modo di voler mostrare agli altri qualcosa di particolare o eclatante. Una teoria che però non ha convinto i giudici che hanno comunque censurato la condotta dello studente, ormai prossimo alla maturità, puntando soprattutto sul fatto che la foto avrebbe evocato il nazismo.
“L’accostamento “fisico” della preside al nazismo è tanto più grave – si legge nella sentenza – in quanto riporta l’immaginario collettivo agli orrori del nazismo – ideologia totalitaria che si è posta quale miccia decisiva dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale – con tutte le sue tragiche conseguenze, in particolare la morte di milioni di civili inermi, trucidati dai nazisti nei campi di concentramento in nome di una presunta (e inesistente) superiorità di razza. Ebbene, il fatto di riprendere con il telefono cellulare immagini aventi un retroterra storico di questo tipo, e amplificarne la diffusione mediante invio ad altri soggetti (non ha alcun rilievo il fatto che la diffusione sia avvenuta senza utilizzare la rete Internet), è condotta quantomai grave, che imponeva un’adeguata sanzione. E sul punto, la sanzione irrogata (3 giorni di sospensione con allontanamento dalla comunità scolastica, più 2 ulteriori giorni di sospensione convertiti in un lavoro personale di ricerca) può ritenersi senz’altro proporzionata alla gravità della condotta posta in essere dal ricorrente”.