La foto di Umberto stretta con la mano sul cuore, gli occhi pieni di lacrime e l’anima a pezzi. Un dolore inconsolabile, alimentato da ricordi e domande senza ancora una risposta accettabile. È passato quasi un anno da quella maledetta notte fra il 17 e 18 febbraio, quando i carabinieri suonarono a casa della famiglia già provata dalla scomparsa di un altro figlio, pure lui servitore dello Stato. Rosanna è una mamma distrutta.
“Nessuno può capire cosa succede quando si sopravvive a un figlio, io ne ho persi due – dice sconvolta – un destino atroce, ma nonostante tutto continuerò a lottare fino a quando avrò respiro”. Vuole giustizia Rosanna, anche quando augura la fine dei topi ai colleghi che a suo dire avrebbero istigato il figlio a premere il grilletto della pistola d’ordinanza, consegnatagli su sua richiesta dal carcere di Turi pur essendo assente dal lavoro da alcuni mesi. “Voglio la verità – continua Rosanna -, forse anche sapere perché degli uomini cattivi lo hanno vessato, offeso e perseguitato, potrebbe aiutarmi a trovare un po’ di pace”.
Alla vigilia dell’anniversario della scomparsa di suo figlio, Rosanna conferma la volontà di costituire un’associazione di sostegno agli uomini in divisa bullizzati dai colleghi, costretti a subire angherie e soprusi di ogni tipo. Un dolore reso ancora più insopportabile dal silenzio che ammanta la vicenda. “I sindacati, i colleghi, l’amministrazione carceraria – tuona la mamma – nessuno si è fatto avanti, chiunque ha girato la testa dall’altra parte. Non è giusto, mio figlio era un uomo buono, ha sempre aiutato chiunque volesse una mano”.
E infine il rammarico. “Un uomo che ha deciso di suicidarsi fa il pieno all’auto la mattina, scegli di consegnare la certificazione del padre per riuscire a restare a casa l’ultimo periodo della sua vita, pianifica il suo viaggio intorno al mondo? – si chiede Rosanna -. Umberto non era pazzo, ma esausto per tutto ciò che era costretto a subire”.