Un rituale, tra pugnali bagnati di sangue, per affiliarsi al clan Palermiti. Il retroscena emerge dalla maxi inchiesta della Dda di Bari che ha portato all’arresto di 135 persone e dall’intercettazione effettuata grazie alle cimici sistemate in casa di Domenico Milella. Il 4 novembre 2017 era proprio lui a celebrare, davanti ad una decina di affiliati, il rito di Franco Pirelli, l’adepto che doveva scalare la gerarchia del clan. “Sotto l’avambraccio destro cosa avete fatto? Sangue. Che avete fatto del sangue? L’ho bevuto. Allora siete bevitori di sangue? No… Con una vena di umiltà, una bocca di omertà, unisci due anime che sono qua. Giuro su questo pugnale bagnato nel sangue, che se ci saranno tragedie e infamità, sconoscerò padre, fratelli e sorelle fino alla settima generazione. Forte abbraccio ai soci e ai compagni di galera”, le parole intercettate di Milella.
“L’indagine ha testimoniato la sacralità di tale organizzazione nel conferire rigide cariche, attraverso il cosiddetto patto di sangue, e ciò consente di affermare l’esistenza di rapporti consortili tra i ricorrenti e i vertici del sodalizio”, si legge nelle carte. Domenico Milella, diventato poi nel tempo pentito e collaboratore di giustizia, ha poi svelato altri retroscena sul rituale e sull’affiliazione. Ogni adepto aveva un padrino e tra i due nasceva un rapporto particolare. “L’affiliato è protetto dal clan. Ogni tanto può fare qualche pensiero oppure a Natale può fargli un cestino. Io personalmente non mi sono mai preso niente dai ragazzi, invece Eugenio Palermiti era uno che si prendeva i soldi da quelli che andavano a rubare”, le sue parole.
“Quando diventi seconda ti fanno un taglietto a croce sul dito, io c’ho quello che mi ha fatto Milella; quando passi terza sei tu che devi farti un taglio sull’avambraccio. Quando si finisce si mandano delle spartenze, per esempio le sigarette, a chi ha un grado superiore. Alla quarta si brucia il santino, ma io mi sono fermato alla terza. Quando affiliavano quelli di quarta, noi di terza non potevamo stare, dovevamo uscire sul balcone”, spiega invece Gianfranco Catalano, un altro collaboratore di giustizia. “La maggior parte delle persone lo fanno per soldi e anche per una questione di essere lasciati stare, cioè di essere protetti quando si fanno guadagni illeciti, per esempio dalla droga – ha aggiunto Catalano -. Quando affili un ragazzo lo fai perché quello porterà sempre qualcosa di guadagno. Il punto, alla fine, te lo deve portare per forza. Una volta che sei affiliato ormai non puoi più tornare indietro e non puoi dire no assolutissimamente. A me è stato detto, gli unici due modi per ritornare indietro sono o pentirsi o lasciare la città”.